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l’alveare

alveare.jpgAll’attraversamento pedonale con semaforo, un uomo disabile impiega tutto il tempo del “verde” per attraversare la prima corsia. Poi il semaforo ridiventa rosso, le macchine partono; lui si ferma lì ed aspetta che il semaforo, calibrato sulla funzionalità ottimale di un essere umano perfettamente sano e disposto, torni a dargli la precedenza. Lui è certamente abituato a questi insulti quotidiani, che sono la sua normalità. E a me piace pensare che se al posto di quel semaforo vi fosse stato, come ai vecchi tempi, un vigile, forse le cose sarebbero andate diversamente ( seppure fra i commenti a denti stretti di qualche automobilista nervoso, già in ritardo per il lavoro).
La spersonalizzazione e l’automazione del lavoro presuppongono e predispongono una umanità-alveare, perfettamente in linea con la teoria (più filosofica che scientifica ) della “selezione naturale”. Il meccanismo che elimina il soggetto inadeguato non è buono ne cattivo, semplicemente è. Come la natura matrigna, il semaforo non ha cuore nè cervello, non prova compassione, non decide ma esegue impassibilmente ciò che è stato programmato per fare. Rosso. Verde. Beep, beep, beep, beep.  Arancio, affrettati! Beep, beep. Rosso.

E’ ovvio, non ho nulla contro i semafori. Sono una invenzione comoda che permette di licenziare un operatore del traffico ( con buona pace di sua moglie e dei suoi figli, ma questa è un’altra storia).  Tuttavia è un fatto incontrovertibile: piu’ la macchina assomiglia all’uomo, e si sostituisce ad esso, piu’ l’uomo va assomigliando alla macchina.

A differenza delle leggi naturali , il semaforo è stato reso operativo dalla società umana. Attraverso la decisione del più primitivo dei robot il soggetto diventa incapace di decidere per sè: l’automobilista non è piu libero di scegliere se perdere trenta secondi del suo tempo perchè  un uomo zoppo o una vecchia signora col bastone possano  attraversare dignitosamente. E’ scattato il rosso, e tutti partono sull’attenti; se anche il capofila avesse un rigurgito di umanità , dovrebbe subire i clacson delle auto che gli stanno dietro, e del resto non avrebbe certamente il potere di fermare le moto che sfrecciano sorpassandolo.

Quindi vediamo che in questo banalissimo caso il robot-semaforo si sostituisce alla coscienza umana deliberando per lei; soffoca la coscienza suddetta qualora dovesse produrre un moto di compassione verso il proprio simile; costringe l’individuo ad allinearsi, al contempo sollevandolo da ogni responsabilità in nome di un meccanismo al quale è indispensabile aderire. Osserviamo uno scollamento fra ciò che è lecito (o persino obbligatorio ) e ciò che è giusto, ed è precisamente quello scollamento in cui, in una società sana, si inserisce il cuneo della disobbedienza civile.

Ma la disobbedienza civile presupporrebbe fra gli uomini un tipo di comunicazione libera dagli schemi , diretta e genuina di cui , nell’era delle nozze fra social network e pensiero unico,  si sente la  profonda mancanza.  Nella società-alveare chi agisce unicamente secondo la propria coscienza e guidato dall’amore per i propri simili , ma  infrangendo le leggi , viene tacciato di individualismo, mentre chi segue pedissequamente le normative a discapito di qualsiasi umanità , firmando sfratti o finanche condanne a morte, è considerato un buon funzionario .

Contemporaneamente e coerentemente, a livello non troppo teorico, si discute dello stesso diritto di esistere di individui non perfettamente sani, non assimilabili dal meccanismo con esattezza. La loro esistenza è riconosciuta come un danno sociale : rallentano gli ingranaggi, richiedono aggiustamenti e spese aggiuntive, toccano fastidiosamente le coscienze degli individui integrati rischiando ogni volta di pregiudicarne l’efficienza; e poichè non solo la solita natura matrigna, ma anche il  feroce meccanismo che gli uomini hanno posto in essere li sottopone a continue offese e frustrazioni, esiste motivo di supporre che la loro non sia una vita degna di essere vissuta. Per questo l’alveare li invita al sacrificio: prima attraverso la mano pietosa  dell’eugenetica,  poi attraverso l ‘eutanasia , per la quale non esiste ancora adeguata  e condivisa normativa – ma, ne siamo certi, verrà; e con essa verrà la meccanizzazione che dà pace alle coscienze . E allora ci basterà sapere che a programmare la mano del primo robot è stato un pensiero umano sgorgato dalla compassione.

Quello che ancora non mi è del tutto chiaro è quale trattamento sarà riservato a chi non si riconosce nell’alveare, e non se sente rappresentato. A chi, pur avendo le risorse per esserne un membro irreprensibile, non riesce a tacitare la propria coscienza. Sarà tollerato? Dimenticato? Abbandonato a se stesso? Perseguito? Obbligato ad accettare una cura per il suo male?

Solo il tempo potrà raccontarlo a chi ancora avrà un cuore per ascoltare.