Category Archives: Pensiero Autarchico

l’alveare

alveare.jpgAll’attraversamento pedonale con semaforo, un uomo disabile impiega tutto il tempo del “verde” per attraversare la prima corsia. Poi il semaforo ridiventa rosso, le macchine partono; lui si ferma lì ed aspetta che il semaforo, calibrato sulla funzionalità ottimale di un essere umano perfettamente sano e disposto, torni a dargli la precedenza. Lui è certamente abituato a questi insulti quotidiani, che sono la sua normalità. E a me piace pensare che se al posto di quel semaforo vi fosse stato, come ai vecchi tempi, un vigile, forse le cose sarebbero andate diversamente ( seppure fra i commenti a denti stretti di qualche automobilista nervoso, già in ritardo per il lavoro).
La spersonalizzazione e l’automazione del lavoro presuppongono e predispongono una umanità-alveare, perfettamente in linea con la teoria (più filosofica che scientifica ) della “selezione naturale”. Il meccanismo che elimina il soggetto inadeguato non è buono ne cattivo, semplicemente è. Come la natura matrigna, il semaforo non ha cuore nè cervello, non prova compassione, non decide ma esegue impassibilmente ciò che è stato programmato per fare. Rosso. Verde. Beep, beep, beep, beep.  Arancio, affrettati! Beep, beep. Rosso.

E’ ovvio, non ho nulla contro i semafori. Sono una invenzione comoda che permette di licenziare un operatore del traffico ( con buona pace di sua moglie e dei suoi figli, ma questa è un’altra storia).  Tuttavia è un fatto incontrovertibile: piu’ la macchina assomiglia all’uomo, e si sostituisce ad esso, piu’ l’uomo va assomigliando alla macchina.

A differenza delle leggi naturali , il semaforo è stato reso operativo dalla società umana. Attraverso la decisione del più primitivo dei robot il soggetto diventa incapace di decidere per sè: l’automobilista non è piu libero di scegliere se perdere trenta secondi del suo tempo perchè  un uomo zoppo o una vecchia signora col bastone possano  attraversare dignitosamente. E’ scattato il rosso, e tutti partono sull’attenti; se anche il capofila avesse un rigurgito di umanità , dovrebbe subire i clacson delle auto che gli stanno dietro, e del resto non avrebbe certamente il potere di fermare le moto che sfrecciano sorpassandolo.

Quindi vediamo che in questo banalissimo caso il robot-semaforo si sostituisce alla coscienza umana deliberando per lei; soffoca la coscienza suddetta qualora dovesse produrre un moto di compassione verso il proprio simile; costringe l’individuo ad allinearsi, al contempo sollevandolo da ogni responsabilità in nome di un meccanismo al quale è indispensabile aderire. Osserviamo uno scollamento fra ciò che è lecito (o persino obbligatorio ) e ciò che è giusto, ed è precisamente quello scollamento in cui, in una società sana, si inserisce il cuneo della disobbedienza civile.

Ma la disobbedienza civile presupporrebbe fra gli uomini un tipo di comunicazione libera dagli schemi , diretta e genuina di cui , nell’era delle nozze fra social network e pensiero unico,  si sente la  profonda mancanza.  Nella società-alveare chi agisce unicamente secondo la propria coscienza e guidato dall’amore per i propri simili , ma  infrangendo le leggi , viene tacciato di individualismo, mentre chi segue pedissequamente le normative a discapito di qualsiasi umanità , firmando sfratti o finanche condanne a morte, è considerato un buon funzionario .

Contemporaneamente e coerentemente, a livello non troppo teorico, si discute dello stesso diritto di esistere di individui non perfettamente sani, non assimilabili dal meccanismo con esattezza. La loro esistenza è riconosciuta come un danno sociale : rallentano gli ingranaggi, richiedono aggiustamenti e spese aggiuntive, toccano fastidiosamente le coscienze degli individui integrati rischiando ogni volta di pregiudicarne l’efficienza; e poichè non solo la solita natura matrigna, ma anche il  feroce meccanismo che gli uomini hanno posto in essere li sottopone a continue offese e frustrazioni, esiste motivo di supporre che la loro non sia una vita degna di essere vissuta. Per questo l’alveare li invita al sacrificio: prima attraverso la mano pietosa  dell’eugenetica,  poi attraverso l ‘eutanasia , per la quale non esiste ancora adeguata  e condivisa normativa – ma, ne siamo certi, verrà; e con essa verrà la meccanizzazione che dà pace alle coscienze . E allora ci basterà sapere che a programmare la mano del primo robot è stato un pensiero umano sgorgato dalla compassione.

Quello che ancora non mi è del tutto chiaro è quale trattamento sarà riservato a chi non si riconosce nell’alveare, e non se sente rappresentato. A chi, pur avendo le risorse per esserne un membro irreprensibile, non riesce a tacitare la propria coscienza. Sarà tollerato? Dimenticato? Abbandonato a se stesso? Perseguito? Obbligato ad accettare una cura per il suo male?

Solo il tempo potrà raccontarlo a chi ancora avrà un cuore per ascoltare.

 

 

 

empatia a orologeria

empathy

Da qualche anno a questa parte, da quando si è diffusa la filosofia  (che a volte degenera in ideologia) dell’Attachment Parenting, la parola empatia è sulla bocca di tutti i genitori progressisti.

Mi va di ricordare che l’ empatia (qui su Wikipedia) è “l’attitudine a offrire la propria attenzione per un’altra persona, mettendo da parte le preoccupazioni e i pensieri personali. La qualità della relazione si basa sull’ascolto non valutativo e si concentra sulla comprensione dei sentimenti e bisogni fondamentali dell’altro” .

Si tratta senza dubbio di una qualità umana fondamentale, che ha senso coltivare consapevolmente affinandola giorno per giorno. La capacità di mettersi autenticamente nei panni dell’altro ci regala una esperienza di comunicazione che va ben oltre la comprensione dell’ espressione verbale prodotta da un nostro simile.

Empatia , direbbe la quantistica, è entrare in risonanza con un altro; con le sue emozioni, con il suo personale percorso, mettendo da parte giudizi di carattere morale e personale. Empatia è mettere da parte la propria opinione sulle scelte di qualcuno, per poterlo ascoltare pienamente, per cio’ che si trova ad essere in quel momento.

Ma perchè sospendere il giudizio?

Filosoficamente  potremmo dire che ciascuno di noi compie le proprie scelte con libero arbitrio, eppure, al tempo stesso, per necessità. Il nostro libero arbitrio è infatti sempre la risultante della invisibile  catena di esperienze, di fattori,  di forze causali che hanno agito su di noi dal nostro primo vagito fino al momento in cui prendiamo quella strada, quella decisione. Per questo la nostra libertà è sempre monca; non è una libertà ideale, una libertà pura . Non potrebbe esserlo nemmeno in un mondo quasi perfetto, e a maggior ragione non lo è minimamente in una società che abitualmente offende la vita dei suoi membri con ogni sorta di vilipendio, morale e materiale.

Per questo motivo molti esseri umani non fanno buon uso della propria libertà e fanno scelte controproducenti, sfortunate, incomplete; in una parola : sbagliate. Sbagliate non già e non tanto per principio ma innanzitutto perchè nascono da premesse distorte e conducono su lidi peggiori di quelli di partenza.

Naturalmente è molto piu’  facile accorgersi degli errori e dei limiti altrui, piuttosto che dei propri; non ci è possibile vederci con gli occhi di un osservatore esterno. Proprio la ricerca di una prospettiva oggettiva sui fatti che ci riguardano  è una delle ragioni che ci spinge a cercare il confronto di altre persone, e a volte anche il loro consiglio. Come genitori, in particolare, cerchiamo l’appoggio di individui con figli, che speriamo possano meglio indovinare le nostre preoccupazioni, i nostri sbagli, le nostre incertezze, e magari offrirci , quando non uno spunto illuminante, almeno una solida comprensione che ci rafforzi nei nostri slanci migliori.

Mi capita però spesso di notare ( in particolare su forum e gruppi di discussione genitoriali, dove l’anonimato permette alle persone di esprimersi con maggior sincerità e ferocia; ma anche nella vita reale )  come questo genere di confronto  sia tristemente insoddisfacente. E’ molto frequente che il genitore in difficoltà non riceva nessun tipo di appoggio morale ; che sia aggredito da commenti poco gentili, quando non da giudizi; che si ritrovi suo malgrado a scivolare in una sorta di gogna in cui un’orda di genitori “empatici”si scaglia, forte del sovrannumero, su un individuo solo.

L’autentica empatia, pur non avendo nulla a che fare con l’indulgenza,  è un balsamo per un’ anima sofferente . E’ quantomeno paradossale che diventi essa stessa discrimine di giudizio, laddove un genitore “non empatico” viene additato e deprecato dagli “empatici ” di turno.

Purtroppo non esiste una linea rossa che divida il bambino dall’adulto, e non sono pochi gli adulti che rimangono, in molte aree, del tutto bambini: ancora spaventati, ancora tormentati, ancora troppo suscettibili ai giudizi altrui. Saper riconoscere il bambino negli altri ci aiuta anche a  tenere a freno il bambino in noi, e ad evitare di renderci partecipi di spiacevoli atti di bullismo adulto .

Certo, è senz’altro piu’ facile essere empatici con un bambino (specialmente se è il proprio 😉 ) che con un adulto semi-sconosciuto, un po’ confuso e magari un po’ antipatico ; tuttavia non dovremmo dimenticare che una attitudine empatica non è un lavoro da svolgersi  “a ore”con i propri figli, e da cui staccare timbrando il cartellino, per poi scaricare tutti i propri livori sul primo adulto “sbagliato” che ci capita a tiro (fosse anche il partner! ). Un autentico slancio di comprensione umana verso chi è  altro da noi è un tratto che, una volta sviluppatosi, si estende almeno un poco ad ogni nostro simile, per deprecabili che possano sembrarci le sue parole e le sue azioni.  La persona empatica sa relazionarsi in modo costruttivo, altruistico, non-violento con il prossimo, sia che si tratti del vicino di casa fastidioso, della moglie nervosa, dello sconosciuto impaziente in coda ad un ufficio, o del proprio bambino quando ne combina una delle sue.

Quando invece l’ascolto attento e la sospensione del giudizio diventano chicche riservate alle nostre creature predilette, siamo nell’ambito di una premura personale , familiare, viscerale. Un fatto privato, insomma.  E non è davvero il caso di scomodare la parola empatia per vantarsene.

l’erba voglio

capriccio

Secondo la nuova pedagogia progressista, i capricci non esistono. Quelli che noi chiamiamo con questo termine inappropriato sono semplicemente bisogni ,espressi in maniera drammatica e plateale a causa della frustrazione vissuta dal bambino.

Sono sempre un po’ diffidente quando sul banco degli imputati finisce una definizione linguistica. Il nostro vocabolario stabilisce:

caprìccio

s. m. [dall’ant. caporiccio]. –

1.
a. Voglia improvvisa e bizzarra, spesso ostinata anche se di breve durata: venire, saltare un c. (con il dativo della persona: gli vengono tutti i c.; le è venuto il c. di un orologio molto costoso; ma che capriccio ti salta, ora?); levare, cavare un c., soddisfarlo; fare passare i c.; essere pieno di capricci; avere più c. che capelli in testa; modo prov., ogni riccio un c., di bambino assai capriccioso (ma anche riferito talora, scherz., a donne); fare, agire a capriccio, seguendo i proprî impulsi improvvisi, senza una ragione plausibile; fare i c., spec. di bambini, fare le bizze. Riferito a cose, non funzionare bene: la mia vecchia macchina stamattina ha fatto i c. e mi ha lasciato per strada; oggi il computer ha fatto i capricci.

Tralasciando l’interessante, carinissimo etimo (da capo riccio, come ci ricorda un famoso adagio popolare) l’accezione corrente, dunque , è puramente descrittiva. L’utilizzo del termine non preclude la possibilità che il capriccio sia espressione di un bisogno nascosto, nè quella di indagarne le cause.  Il dizionario ci ricorda poi che non solo i bambini possono avere un capriccio. Puo’ succedere ad uomini, donne, persino ad automobili e computer.

Chiunque abbia un bambino piccolo sa bene come egli sia soggetto a

“Voglie improvvise e bizzarre, spesso ostinate anche se di breve durata”.

Prendere atto di questa realtà fattuale, comunque la si chiami,  non significa sminuire il bambino o non dedicare attenzione ad indagare la cause profonde dei suoi comportamenti.  Viceversa, rifiutare di utilizzare la parola capriccio preferendo dire “ha fatto una scenata”, “ha avuto una crisi” , “è crollato” etc. non ci trasforma automaticamente in genitori coscienziosi.

Partiamo dal presupposto che  qualsiasi agire umano nasce da un bisogno. Questo va da sè, non ci sono eccezioni. Tuttavia, i bisogni non sono tutti uguali.

Talvolta , nel mondo adulto, la soddisfazione del capriccio ( mi si passi il termine, non stiamo parlando di bambini!) arriva a scavalcare persino quella del bisogno primario: accade  , grazie alla straordinaria libertà democratica di cui godiamo , che si decida sia meglio investire in uno smartphone che in cibo sano, che sia meglio acquistare stracci alla moda ed avere unghie perfette che risparmiare per permettersi una vacanza nel verde o per acquistare oggetti di reale utilità ed impatto sulla qualità delle nostre vite.

La mia impressione è che la “rivoluzionaria” condanna a morte  del concetto di capriccio, che eleva qualsiasi esigenza al rango di generico “bisogno” , sia piuttosto scivolosa.  Viviamo infatti in un mondo in cui il modello economico imperante ( e purtroppo altamente devastante per il pianeta e le sue forme di vita ) si basa proprio sulla soddisfazione indifferenziata di qualsiasi desiderio, da quello piu vitale ed impellente fino a quello piu piccolo e voluttuario . La crescita, o meglio la “ripresa” economica si basa su continuo incremento della domanda, e percio’  sullo sfruttamento umano e sulla distruzione ambientale in proporzione sempre crescente.

La negazione del capriccio quindi, a livello sociale, filosofico e da ultimo anche pedagogico, coincide con l’idea della assoluta liceità del desiderio, quale esso sia.

Si potrebbe giustamente obiettare che l’accettazione del capriccio  -oooops,  bisogno !  non corrisponde necessariamente alla sua  indiscriminata soddisfazione: esso puo’ essere considerato sempre lecito in quanto espressione umana, e non venire negato o represso, senza per questo essere immediatamente gratificato. Ed è questo meritevole slancio , probabilmente , a muovere gli illustri pedagoghi che hanno elaborato e diffuso questo nuovo modello di educativo.

Purtroppo quello che ne deriva, nella pratica, è assai diverso. Inserendosi in una struttura sociale fortemente deformata dalla malattia del consumo, questo stile educativo , anzichè invitare il genitore ad educare tramite il proprio esempio di moderazione, sfocia in decadenza .  Il negare che esista il capriccio infantile diventa un perfetto alibi per procedere alla negazione del capriccio del genitore: tutti i “voglio!” sono leciti nella nostra società, anzi: sono  i benvenuti, perchè fanno crescere il PIL.

Un tocco di bacchetta magica cancella il nome della malattia, e trasforma una società di individui malati in persone perfettamente sane.

Sarebbe molto piu’ interessante,  benchè scomodo, soffermarsi invece sulla natura dei bisogni reali che si nascondono dietro ai “capricci” che affliggono ogni giorno tutti gli abitanti , piccoli e grandi, del mondo privilegiato .

Che cosa veramente manca nelle nostre vite?  Come mai abbiamo cosi’ tanti capricci, che essi siano bisogni materiali, fissazioni, nevrosi , esibizionismi, collezionismi, manie ? Cosa si nasconde dietro di essi?

Basterà la morte di una parola a liberarcene?

 

 

Minusvalore

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Quando un bene possiede un valore tanto grande da non essere quantificabile nè , quindi,  cedibile, diciamo colloquialmente che esso “non  ha prezzo”.

Percio’ quel mondo  che trova un prezzo ad ogni cosa – persino alle relazioni umane primarie –  è un mondo che non conosce alcun valore, ma soltanto valuta.

In esso il denaro diventa unico mezzo, unico fine, ed universale unità di misura.

E che fine fa il valore, quel misterioso qualcosa che inizialmente ha generato il desiderio e quindi la successiva  monetizzazione e lo scambio?  Per fare posto alla cessione, ovvero all’atto di privazione spontanea che un  individuo accetta di fare in cambio di un bene non già “specifico” bensì  “astratto, generico”, ovvero il denaro,  il valore è stato vilipeso .  Non per nulla la società che “perde i suoi valori” è proprio quella dove “tutto ha un prezzo”.

Tuttavia, venendo meno la percezione del valore, e poichè esso è sempre piu’ difficile da esperire (non per nulla vediamo il desiderio umano ambire capricciosamente  ad obiettivi sempre piu’ audaci! )  anche lo slancio all’accaparramento cala.  Per questo anche il consumo, proprio come un cenone troppo ricco, provoca la nausea.

Che il capitalismo si divori da solo è una certezza . Non ci resta che sperare di sopravvivergli…

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il terzo comodo

three-things-fingers-hand1Quando si parla di figli, secondo la mia amica Cristina , “tre è il minimo numero perfetto“.

(Del resto, lei ne ha sette.)

Non è facile spiegare che cosa cambi l’arrivo del terzo figlio nella famiglia del Mulino Bianco : Lui, Lei, bimbo e bimba ( in ordine variabile). Posso tutt’al piu’ cercare di raccontarvelo cosi’ come è stato per me, per noi.

Mia madre mi ripeteva , mentre aspettavo il secondo bambino: ” Con un figlio si diventa genitori, con due figli si è una famiglia”.  Insomma, il minimo numero perfetto  sembrava essere due.

Ma due  bambini sono facilmente rivali. L’altro è unico possibile alleato ed unico possibile nemico. Il rapporto è permeato da una grande ed irrisolvibile ambivalenza. La gelosia è una e puo’ arrivare ad sembrare insormontabile. Il piu’ grande non riesce a rinunciare al suo primato ed il piu’ piccolo non accetta i limiti della sua subalternità. Entrambi si sentono , e in qualche maniera risultano realmente, in difetto.

Il terzo bimbo sconvolge questo orizzonte aprendolo a nuove e infinite possibilità. Improvvisamente l’Altro è una dimensione piu’ varia. Il rivale non ha sempre lo stesso volto e c’è sempre una compagnia di  riserva quando le cose vanno storte.

Le ragioni e il torto vengono distribuiti in maniera piu’ rilassata ed  equanime: e’ piu’ facile accettare che  il gelato, la sbucciatura al parco, la sgridata, l’influenza, la promessa dimenticata,  il giorno di sciopero da scuola  capitino “oggi a me , domani a te,  dopodomani a lui “. E’ la vita: varia e meravigliosa, se la si prende con filosofia.

I ruoli sono piu’ effimeri. Difficilmente i rapporti si cristallizzano fra tre fratelli,  ed è minore il rischio di  essere ingabbiati dal proprio posto nella gerarchia familiare.  Veder accudire i piu’ piccoli non  suscita solo gelosie, ma anche tenerezza, senso di responsabilità e persino  rassicurazione, quando il fratello maggiore percepisce che quelle stesse cure sono state prima rivolte a lui.

La famiglia è costretta ad organizzarsi decentemente . I padri piu’ riottosi rientrano nei ranghi e si rimboccano le maniche  e aiiutano,  a occhio e croce  circa il 30% in piu’ . Non è piu’ permesso di lasciare indietro piatti da fare o lavatrici da stendere: ormai è semplice sopravvivenza, e uno sgarro puo’ degenerare in emergenza sanitaria. Alla sera , distrutti, ci si rivede volentieri. Tutti hanno qualcosa da raccontare ed il caos è ormai diventato fisiologico, percio’ si brontola meno.

Gli abiti vengono sfruttati fino al lumicino saltando da un bimbo all’altro. Il look vintage è assicurato senza passare da quella adorabile boutique in stile retro’. Ci passo lo stesso, per un saluto a Caterina !  Ma non le porto piu’ i miei biscotti fatti in casa: quando li sforno finiscono troppo in fretta, rubati da manine che di giorno in giorno si fanno piu’ agili e meno grassottelle.    Poverina….quando usciamo da li’ il negozio è sottosopra , e lei pare avere messo le dita nella presa dell’alta tensione.  E’ un’altra gioia del numero tre: creare scompiglio  nell’esistenza altrui con minimo sforzo.

Le vacanze sono un delirio. Ma , appunto, la cosa non sorprende piu’. In alcuni momenti (magari non quando si è appena perso il treno) ci si puo’ addirittura compiacere del proprio aspetto folcloristico ed indulgere in una foto di gruppo.

Bisogni primari. Andare al bagno è un diritto inalienabile. Se non avete due stanze da bagno, preparatevi a stare in coda o a sgomitare per le vostre esigenze di toilette e ad abituarvi a asciugamani sempre umidi, a spazzole intasate da capelli di bambola, ad orride visioni di pannolini lavabili abbandonati nel secchio per inseguire un marmocchio seminudo e  fuggitivo, e soprattutto allo scarico del lavandino Montessori  permanentemente ostruito da piccoli oggetti . ( Come? Non avete un lavandino Montessori, dite…? Sì, che l’avete: tutti gli italiani ne hanno uno in casa… )

Ripetizioni.  Molti perfetti estranei,  dopo aver contato i vostri figli ed avere appurato che risalgono a voi,  si sentiranno in dovere di darvi lezioni sul come nascono i bambini.  Un ripasso può sempre essere utile.  Grazie di cuore…!

 L’invasione delle cavallette. Il frigorifero  sorride per circa 36h dopo la spesa, prima di apparire di nuovo vuoto; il momento della preparazione del pasto è scandito da ululati di fame ed incursioni non autorizzate nella dispensa.

Lessico famigliare. I modi di dire, l’umorismo surreale,   le parole strambe, le consuetudini bizzarre avranno la meglio su di voi.  Anche se foste oggetto di spionaggio ed intercettazioni, nessuno potrebbe mai capire quello che si dice in casa vostra.

In buona sostanza, se con un figlio si diventa genitori, e con due famiglia, con tre si diventa un’orda.  Una tribu’. Un circo. Una squadra.  Un lazzaretto, quando passa il virus stagionale.Un carrozzone hippie. Un quadretto da cartolina…e molto, molto, molto altro.

Una cosa è certa, Cristina ha ragione : tre è davvero il (mio) (minimo) numero perfetto. Più oltre,  non so; se dovessi mai scoprirlo,  ve lo farò sapere.

l’equazione impossibile

less-is-more-300x300Recentemente ho comprato due (comunissimi) indumenti nuovi dopo 12 mesi in cui non avevo fatto un solo acquisto di abbigliamento.

Comprare è un gesto banale che però, se praticato con parsimonia,  acquista significato! Puo’ essere veramente una piccola e pulitissima gioia del cuore, e farci grati e contenti come bambini.

Troppo spesso predichiamo bene e razzoliamo male: condanniamo il consumismo nelle chiacchiere da salotto, ma non sappiamo ritornare, nella pratica, ad uno stile di vita sostenibile (che, secondo interessanti proiezioni, è quello degli anni ’50 prima del boom economico:  con la bottiglia vuoto a rendere, il dolce alla domenica e gli abiti – sartoriali,  robusti e durevoli – acquisti rari e dispendiosi)

Oggi anche per le le famiglie modeste non portare a casa merci ogni giorno è diventato difficile; eppure, davvero, “less is more” : la quantità ci deruba della qualità delle esperienze .

Questa iniziativa molto interessante  puo’ guidare i piu’ pigri attraverso una  esperienza di ragionevole privazione e restituirci al contatto genuino con pochi, rispettati oggetti.  Si tratta di una sfida: siamo capaci di tenere nel cassetto, e di indossare, soltanto sei capi di abbigliamento, per sei settimane?

Un piccolo esperimento come questo puo’ davvero insegnarci molto su noi stessi.

il salto nella luce

luce

Il tempo passa, e cresce la consapevolezza del problema ambientale. Sempre piu’ persone si rendono conto di trovarsi in una situazione in cui affidarsi al naturale corso delle cose non basta piu’ a tutelare la salute propria e dei familiari:  l’inquinamento è tanto , e tale,  che il vaso è ormai colmo, e non appare saggio scegliere con leggerezza, rischiando ogni volta di scomodare la proverbiale goccia.

Si fanno strada medicina alternativa, fitoterapia, cura scrupolosa per l’alimentazione, approcci olistici alla persona e agli ambienti di vita quotidiana. Questo è encomiabile , e vedere tanta buona volontà mi scalda il cuore.  Devo ammettere che l’onda riformatrice dei “sempre meno pochi”  è in linea con le mie migliori aspettative.

Frequentando i gruppi di genitori “illuminati”, però –  genitori che si impegnano in prima persona in strategie al contempo tradizionali ed innovative , dall’ EC alla dieta vegana , all’educazione montessoriana, i giocattoli educativi, e molto altro –  riscontro spesso un serpeggiante sentimento di sconforto.

Questo è comprensibile. Le informazioni “negative” sono moltissime; processarle , esserne il filtro e l’interprete, farsi carico della loro trasformazione in prassi quotidiana, ha un prezzo. Ne risulta spesso un sentimento di amarezza, di impotenza, di sfiducia nei confronti degli enti istituzionali , di misantropia, di disfattismo.

Il genitore informato troppo spesso è un genitore angosciato, spaventato, deluso.  Assorbe da ogni parte informazioni sconcertanti , e spesso persino contrastanti fra loro. E’ confuso e disorientato. E’ dispiaciuto, talvolta apertamente  rabbioso per non riuscire a fare di piu’ , e meglio, per “la salvezza” dei propri figli.

Questo stato mentale è comprensibile; eppure, è una trappola rischiosa. Si ha paura, e la paura irrigidisce. L’irrigidimento a sua volta  rende scricchiolanti e dolorosi tutti quei movimenti che nella quotidianità della vita familiare normalmente hanno una piacevole fluidità e costituiscono la natura piu’ profonda della cura e del calore che si vivono in un sano nido casalingo.

Pian piano l’attenzione meticolosa al dettaglio si trasforma in nevrosi o in ossessione, e finisce per avvelenare il nostro rapporto con le persone e con le cose.

Si ha quindi il caso della madre vegetariana che aggredisce la maestra perchè il bambino , durante il pasto , ha assaggiato la carne  dal piatto di un compagno; del padre che non permette al bambino di salutare la zia al cellulare per farle gli auguri di compleanno, neppure col vivavoce,  per evitare l’esposizione a EMF; dei genitori che insistono con rimedi della nonna in casi di notevole gravità.

In particolare l’attenzione al cibo sano sconfina nell’ortoressia, che è considerata alla stregua degli altri e piu’ noti disturbi alimentari: in alcuni casi l’osservanza religiosa della dieta sana non permette alla persona di mangiare fuori in compagnia, perchè in nessun ristorante esiste un cibo degno, per lei,  di essere mangiato.

In effetti , esaminando la situazione da un punto di vista del tutto oggettivo, non possiamo esimerci dall’ammettere che l’aria terrestre non è piu’ degna di essere inspirata,  perchè ovunque, anche nei luoghi piu’ impervi e dimenticati, essa contiene contaminanti dispersi dall’uomo . La questione è innegabilmente reale, ha una sua consistenza.

Tuttavia l‘informazione, se ha da essere fatta, deve avere lo scopo di migliorare le nostre vite, non di renderle un salto nel buio, in un inferno di proibizioni e di sensi di colpa. Una vita del genere non sostiene, non nutre, non rafforza i nostri figli. Otteniamo, nonostante le nostre eroiche fatiche , il risultato opposto a quello per cui crediamo di lottare.

Di pari passo all’acquisizione di nuove informazioni è necessario l’aggiustamento , nella pratica, delle attuali strategie. Ci occorre elasticità per crescere di pari passo ai nostri figli: dobbiamo continuamente cambiare, provare nuove strade, sperimentare nuove soluzioni, in ogni ambito. Bisogna essere pronti a rimettersi incessantemente  in gioco e a correggere il tiro, anche quando questo ci rende un po’ incoerenti agli occhi di un mondo cui  un po’ troppo spesso, sentendoci sotto ai riflettori,  raccontiamo le nostre scelte con toni veementi e un po’ apocalittici, che rendono bruciante una successiva ritirata.

Bisogna essere pronti ad accogliere le informazioni difficili, tradurle in pratica e farne i nostri “attrezzi di lavoro” . Ma occorre anche essere capaci di dimenticarle  non appena entriamo nella piu’ delicata sfera emotiva. Agire in modo sostenibile e costruttivo  ha infatti, come suo corrispettivo, sul piano interiore, il coltivare un amore spassionato per la realtà in tutte le sue declinazioni, anche in quelle meno felici;  un sentimento che ci permetta di curarla come una piantina un po’ patita, con calma e pazienza, senza arrabbiarci perchè non cresce, perchè ha poche foglie, perchè non è verde e rigogliosa come avevamo sperato.

I nostri figli non meritano soltanto l’alto contatto in fascia,  il giocattolo in legno, i granuli omeopatici, i biscotti fatti in casa senza glutine, la scuola libertaria o Montessori, i pannolini in stoffa, e tutte le altre cose belle ed utili che popolano il nostro mondo di “genitori consapevoli”. Essi meritano anche , e soprattutto, il nostro equilibrio e la nostra serenità. Meritano che noi trasmettiamo loro, attraverso scelte coscienziose, l’ amore per la vita, non il terrore di una cattiva morte.

La consapevolezza piu’ profonda e preziosa che possiamo trasmettere ai nostri bambini  si puo’ riassumere nel messaggio: ” Tu sei amato. La Terra è un bel posto in cui vivere”. Il resto del nostro lavoro , ed il tormento interiore che spesso ne deriva, è la nostra nemesi generazionale; ma non deve diventare il loro fardello. Dopo aver smantellato i vecchi idoli, dobbiamo portare fuori le macerie in silenzio, senza caricarle sulle loro giovani spalle.

Perciò  credo che sia fondamentale avere cura di sè e dei propri pensieri :  coltivarli come un giardino scegliendo le sementi giuste, sfoltendo le erbacce, riassettando i viali, potando gli alberi da frutto e creando spazi ordinati in cui sia possibile interagire con gli altri in serenità. Questo  equilibrio dell’anima non è la destinazione,  ma il punto di partenza per un mondo migliore, e merita quindi di essere il primo obiettivo da perseguire, il primo orizzonte a cui tendere noi , genitori e non solo,  in quanto uomini e donne di buona volontà.

il cliente fedele

dog-collarFare la spesa al supermercato fa parte della mia quotidiana jungla. Questo è un compito che assolvo con ottimismo e brio, facendo del mio meglio affinchè questa mia disposizione d’animo sopravviva al conto finale,  che riflette l’ ahimè costante aumento dei prezzi. Un po’ di economia domestica ed il buonumore regge, purchè non arrivi la cassiera di turno , allegra e solerte ( mi chiedo ogni volta: dietro incentivo o ricatto? ) , a propormi la cedola della raccolta punti fedeltà.

Un tempo  (stiamo parlando dell’era antecedente a quella del “cittadino consumatore”) la raccolta punti era un gioco da bambini. Essa imponeva alla zelante massaia di ritagliare e conservare una o due dozzine di “prove di acquisto” dalle confezioni di questo o quel prodotto. Previa spedizione del cedolino completo si poteva avere un “premio”:  un gingillo per bambini con i punti delle merendine, un vassoio, tazza, strofinaccio, tovaglia con logo pubblicitario con i punti del caffè, della mozzarella, della pasta; orologi o berretti firmati “Enrico Coveri” ( un mitologico brand creato appositamente allo scopo, forse? ) con i fustini del detersivo, e cosi’ via.

(Completai l’ultima raccolta punti di questo tipo nei primi anni 2000, quando raccolsi sei punti della carta igienica per ottenere un caricabatterie da cellulare a manovella, ricevuto ventun mesi dopo la spedizione del cedolino. Da allora non ne avvistai piu’, e credo di poterle definire del tutto estinte.)

Poi, lentamente ed inesorabilmente, la raccolta punti si è evoluta assieme alle abitudini di mercato. Dopo essere pressochè sparite dai singoli prodotti, le raccolte punti iniziarono a diventare appannaggio del supermercato. Una quindicina di anni fa il ricco catalogo di premi premiava, con elettrodomestici e complementi d’arredo, il fedelissimo capace di  raccogliere 500, 2000, addirittura 5000 punti spesa.    L’impresa era ardua, epica, forse impossibile. Forse per questo si passo’ alla bieca formulazione successiva: la raccolta punti con simbolico contributo in denaro, nella quale il consumatore raccoglie un discreto numero di bollini sul cedolino e  aggiunge una piccola somma, di molto inferiore al valore dell’oggetto, per ottenere il suo premio.

Passano gli anni, ed al consumatore sempre piu’ prono le recenti raccolte punti propongono sempre piu’ spesso  “esclusivi pezzi”  ( leggi: articoli invenduti sulla soglia dell’obsolescenza come valige, borse, caffettiere, tostapane di qualche anno fa) previa raccolta di numerosissimi bollini PIU’  ingente contributo in denaro, molto vicino al valore di mercato dell’oggetto e certamente decine di molto superiore al suo valore reale:  se ti dimostri cliente fedele al punto da spendere 500 € in poco piu’ di un mese puoi avere l’occasione di acquistare un paio di bicchieri a 2 € al pezzo, un piatto per 3,50 €, una brocca per 9 €, una tovaglia per 20; e cosi’ via.   In parole povere, la mia fedeltà viene premiata con l’opportunità di comprare fondi di magazzino a prezzo intero.

Malcelata nei bollini adesivi in carta dorata e luccicante,  la beffa è tanto amara da costituire, essa stessa, un danno morale.

Mi conforta la libertà di declinare l’invito ad accettare il cedolino.  Me ne vado senza bollini, certa che verrà in giorno in cui la cassiera di turno mi proporrà di conquistare , tramite coscienziosa raccolta punti e contributo in denaro, una ciotola di riso, un riparo per la notte, o – solo per i piu’ virtuosi –  un contrattino di lavoro interinale.  Spero tanto di potermi permettere, allora come oggi, il lusso di rifiutare.

la voce del padrone

crybaby

Ehm….

Da un po’ di tempo a questa parte, sono carente su qualsiasi fronte, o quasi. Il mio frigo è sempre semivuoto, la mia mailbox sempre piena; i miei “hot spots” traboccano di disordine ed il pavimento dell’ingresso , dove i bambini giocano “liberamente“, non si puo’ vedere.

Il pianto del neonato è sinonimo di emergenza, ed io non riesco a concentrarmi su niente fino a quando non l’ho placato. Devo interrompere cio’ che ho iniziato: non importa che io stia tritando la cipolla per un risotto-last-minute alle otto di sera, che io stia ultimando di cucire un “ordine urgente” la cui spedizione è prevista per il giorno successivo, che io stia stendendo il bucato nell’unica giornata di sole prevista nell’arco di quindici giorni, nè che, benchè siano le due di notte, io non sia  ancora  riuscita a lavarmi i denti.  Raggiungere il neonato e occuparmi di lui è l’assoluta priorità che il mio istinto primordiale stabilisce.

E a poco serve che la mia mente razionale s’impunti, quando si tratta di lasciare a metà un lavoro per l’ ennesima volta.  Se provo a farmi violenza, se oso tardare di qualche secondo, ci sono i miei familiari ad inseguirmi, a sollecitarmi:

“Piange, mamma! Non vorrai farlo piangere…! ” mi redarguisce mia figlia, caratterialmente non troppo incline ad ascoltare i bisogni altrui, ma molto empatica in questo caso.

“Il bebè non sembra molto contento, mamma”, dice il mio quasi-quattrenne in tono allarmato, per poi tapparsi le orecchie se il volume sale, piagnucolando: “Non mi piace questo rumore!”

“Vuole il latte! Dai, poverino! ”  Incalza mio marito… E’ d’altronde un vero e proprio topos cinematografico quello dell’uomo terrorizzato da un neonato urlante, che si guarda intorno allarmato in preda all’angoscia. Oh, NO! E adesso cosa faccio?

Sono certa che il pianto del neonato attivi una specifica attività cerebrale, una risposta biochimica che di razionale non ha nulla: è istinto puro. Presto, corri! La conservazione della specie è nelle tue mani.  Le mie gambe si muovono da sole, corro al mio dovere di nutrice ,  consolatrice ed addetta alle varie manutenzioni. Il resto puo’ attendere, malgrado le migliori intenzioni, e i mille dispiaceri.

Non solo figlio della iper-civilizzazione e del razionalismo, quindi, ma profondamente innaturale,  addirittura delirante : il metodo Estivill, al di là della sua eventuale barbarie,  è veramente impraticabile per i piu’.  La quantità di violenza che un essere umano deve esercitare su di sè per resistere al pianto del neonato è enorme. “Lasciar piangere” è molto difficile,  richiede una repressione fortissima del proprio stesso bisogno di rispondere, prima ancora che dei  bisogni del neonato.

Ma al di là delle conclusioni di carattere teorico e generale, il nocciolo di questo post è comunicare  che il mio lavoro, ultimamente, è davvero piu’ difficile del previsto.Il mio terzo bambino ha il sonno molto leggero.   Sembra aver deciso ( forse con l’intento di aiutarmi a promuovere il babywearing ? ) che io sia il luogo piu’ comodo in cui dormire; e questo non mi aiuta nel mio lavoro di massaia (nel quale peraltro non ho mai brillato), nè quando si tratta di sedermi alla macchina da cucire…ma neppure quando devo semplicemente consumare un frugalissimo pasto.

Non dormiresti piu’  tranquillo nella tua culla? Questo ipotetica, muta domanda attraversa la mia mente molte volte al giorno, mentre tento, sospirando,  di rimuovere le briciole di pane e i ritagli di stoffa dalle pieghe del collo del mio piccolino . Ma la risposta implicita nel suo faccino soddisfatto è evidentemente : No.

Che altro dire? Non posso che invitarvi ad aspettarmi senza contare ore e giorni.  Prendo molto sul serio il mio lavoro, e non accetto compromessi sulla cura delle mie confezioni; il tempo speso ripaga. Abbiate pazienza, che è la virtù dei forti, ed avrete il meglio (non solo da parte mia ).

crybabyHo sempre avuto cara la mia libertà, ma in questo momento è piu’ forte di me.

…Ascolto soprattutto la voce del padrone.

io NON mi svezzo da solo

self - weaning

Siamo genitori Conservatori o Alternativi? Il pacchetto è “tutto compreso”, alla maniera recisa e rassicurante a cui decenni da “cittadini consumatori” ci hanno abituati.

Una volta scelto il package, pagato alla cassa, aperto ed indossato i vari gadget e studiato il libretto di istruzioni, siamo pronti ad abbracciare con serena ottusità tutte le proposte, nell’incrollabile fiducia che solo la coerenza-senza-coscienza puo’ offrirci.

Ed è cosi’ che molte madri si avviano con sicumera sull’affascinante, ma sdrucciolevole via dell’ AUTOSVEZZAMENTO. Continue reading