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l’erba voglio

capriccio

Secondo la nuova pedagogia progressista, i capricci non esistono. Quelli che noi chiamiamo con questo termine inappropriato sono semplicemente bisogni ,espressi in maniera drammatica e plateale a causa della frustrazione vissuta dal bambino.

Sono sempre un po’ diffidente quando sul banco degli imputati finisce una definizione linguistica. Il nostro vocabolario stabilisce:

caprìccio

s. m. [dall’ant. caporiccio]. –

1.
a. Voglia improvvisa e bizzarra, spesso ostinata anche se di breve durata: venire, saltare un c. (con il dativo della persona: gli vengono tutti i c.; le è venuto il c. di un orologio molto costoso; ma che capriccio ti salta, ora?); levare, cavare un c., soddisfarlo; fare passare i c.; essere pieno di capricci; avere più c. che capelli in testa; modo prov., ogni riccio un c., di bambino assai capriccioso (ma anche riferito talora, scherz., a donne); fare, agire a capriccio, seguendo i proprî impulsi improvvisi, senza una ragione plausibile; fare i c., spec. di bambini, fare le bizze. Riferito a cose, non funzionare bene: la mia vecchia macchina stamattina ha fatto i c. e mi ha lasciato per strada; oggi il computer ha fatto i capricci.

Tralasciando l’interessante, carinissimo etimo (da capo riccio, come ci ricorda un famoso adagio popolare) l’accezione corrente, dunque , è puramente descrittiva. L’utilizzo del termine non preclude la possibilità che il capriccio sia espressione di un bisogno nascosto, nè quella di indagarne le cause.  Il dizionario ci ricorda poi che non solo i bambini possono avere un capriccio. Puo’ succedere ad uomini, donne, persino ad automobili e computer.

Chiunque abbia un bambino piccolo sa bene come egli sia soggetto a

“Voglie improvvise e bizzarre, spesso ostinate anche se di breve durata”.

Prendere atto di questa realtà fattuale, comunque la si chiami,  non significa sminuire il bambino o non dedicare attenzione ad indagare la cause profonde dei suoi comportamenti.  Viceversa, rifiutare di utilizzare la parola capriccio preferendo dire “ha fatto una scenata”, “ha avuto una crisi” , “è crollato” etc. non ci trasforma automaticamente in genitori coscienziosi.

Partiamo dal presupposto che  qualsiasi agire umano nasce da un bisogno. Questo va da sè, non ci sono eccezioni. Tuttavia, i bisogni non sono tutti uguali.

Talvolta , nel mondo adulto, la soddisfazione del capriccio ( mi si passi il termine, non stiamo parlando di bambini!) arriva a scavalcare persino quella del bisogno primario: accade  , grazie alla straordinaria libertà democratica di cui godiamo , che si decida sia meglio investire in uno smartphone che in cibo sano, che sia meglio acquistare stracci alla moda ed avere unghie perfette che risparmiare per permettersi una vacanza nel verde o per acquistare oggetti di reale utilità ed impatto sulla qualità delle nostre vite.

La mia impressione è che la “rivoluzionaria” condanna a morte  del concetto di capriccio, che eleva qualsiasi esigenza al rango di generico “bisogno” , sia piuttosto scivolosa.  Viviamo infatti in un mondo in cui il modello economico imperante ( e purtroppo altamente devastante per il pianeta e le sue forme di vita ) si basa proprio sulla soddisfazione indifferenziata di qualsiasi desiderio, da quello piu vitale ed impellente fino a quello piu piccolo e voluttuario . La crescita, o meglio la “ripresa” economica si basa su continuo incremento della domanda, e percio’  sullo sfruttamento umano e sulla distruzione ambientale in proporzione sempre crescente.

La negazione del capriccio quindi, a livello sociale, filosofico e da ultimo anche pedagogico, coincide con l’idea della assoluta liceità del desiderio, quale esso sia.

Si potrebbe giustamente obiettare che l’accettazione del capriccio  -oooops,  bisogno !  non corrisponde necessariamente alla sua  indiscriminata soddisfazione: esso puo’ essere considerato sempre lecito in quanto espressione umana, e non venire negato o represso, senza per questo essere immediatamente gratificato. Ed è questo meritevole slancio , probabilmente , a muovere gli illustri pedagoghi che hanno elaborato e diffuso questo nuovo modello di educativo.

Purtroppo quello che ne deriva, nella pratica, è assai diverso. Inserendosi in una struttura sociale fortemente deformata dalla malattia del consumo, questo stile educativo , anzichè invitare il genitore ad educare tramite il proprio esempio di moderazione, sfocia in decadenza .  Il negare che esista il capriccio infantile diventa un perfetto alibi per procedere alla negazione del capriccio del genitore: tutti i “voglio!” sono leciti nella nostra società, anzi: sono  i benvenuti, perchè fanno crescere il PIL.

Un tocco di bacchetta magica cancella il nome della malattia, e trasforma una società di individui malati in persone perfettamente sane.

Sarebbe molto piu’ interessante,  benchè scomodo, soffermarsi invece sulla natura dei bisogni reali che si nascondono dietro ai “capricci” che affliggono ogni giorno tutti gli abitanti , piccoli e grandi, del mondo privilegiato .

Che cosa veramente manca nelle nostre vite?  Come mai abbiamo cosi’ tanti capricci, che essi siano bisogni materiali, fissazioni, nevrosi , esibizionismi, collezionismi, manie ? Cosa si nasconde dietro di essi?

Basterà la morte di una parola a liberarcene?

 

 

l’equazione impossibile

less-is-more-300x300Recentemente ho comprato due (comunissimi) indumenti nuovi dopo 12 mesi in cui non avevo fatto un solo acquisto di abbigliamento.

Comprare è un gesto banale che però, se praticato con parsimonia,  acquista significato! Puo’ essere veramente una piccola e pulitissima gioia del cuore, e farci grati e contenti come bambini.

Troppo spesso predichiamo bene e razzoliamo male: condanniamo il consumismo nelle chiacchiere da salotto, ma non sappiamo ritornare, nella pratica, ad uno stile di vita sostenibile (che, secondo interessanti proiezioni, è quello degli anni ’50 prima del boom economico:  con la bottiglia vuoto a rendere, il dolce alla domenica e gli abiti – sartoriali,  robusti e durevoli – acquisti rari e dispendiosi)

Oggi anche per le le famiglie modeste non portare a casa merci ogni giorno è diventato difficile; eppure, davvero, “less is more” : la quantità ci deruba della qualità delle esperienze .

Questa iniziativa molto interessante  puo’ guidare i piu’ pigri attraverso una  esperienza di ragionevole privazione e restituirci al contatto genuino con pochi, rispettati oggetti.  Si tratta di una sfida: siamo capaci di tenere nel cassetto, e di indossare, soltanto sei capi di abbigliamento, per sei settimane?

Un piccolo esperimento come questo puo’ davvero insegnarci molto su noi stessi.

il cliente fedele

dog-collarFare la spesa al supermercato fa parte della mia quotidiana jungla. Questo è un compito che assolvo con ottimismo e brio, facendo del mio meglio affinchè questa mia disposizione d’animo sopravviva al conto finale,  che riflette l’ ahimè costante aumento dei prezzi. Un po’ di economia domestica ed il buonumore regge, purchè non arrivi la cassiera di turno , allegra e solerte ( mi chiedo ogni volta: dietro incentivo o ricatto? ) , a propormi la cedola della raccolta punti fedeltà.

Un tempo  (stiamo parlando dell’era antecedente a quella del “cittadino consumatore”) la raccolta punti era un gioco da bambini. Essa imponeva alla zelante massaia di ritagliare e conservare una o due dozzine di “prove di acquisto” dalle confezioni di questo o quel prodotto. Previa spedizione del cedolino completo si poteva avere un “premio”:  un gingillo per bambini con i punti delle merendine, un vassoio, tazza, strofinaccio, tovaglia con logo pubblicitario con i punti del caffè, della mozzarella, della pasta; orologi o berretti firmati “Enrico Coveri” ( un mitologico brand creato appositamente allo scopo, forse? ) con i fustini del detersivo, e cosi’ via.

(Completai l’ultima raccolta punti di questo tipo nei primi anni 2000, quando raccolsi sei punti della carta igienica per ottenere un caricabatterie da cellulare a manovella, ricevuto ventun mesi dopo la spedizione del cedolino. Da allora non ne avvistai piu’, e credo di poterle definire del tutto estinte.)

Poi, lentamente ed inesorabilmente, la raccolta punti si è evoluta assieme alle abitudini di mercato. Dopo essere pressochè sparite dai singoli prodotti, le raccolte punti iniziarono a diventare appannaggio del supermercato. Una quindicina di anni fa il ricco catalogo di premi premiava, con elettrodomestici e complementi d’arredo, il fedelissimo capace di  raccogliere 500, 2000, addirittura 5000 punti spesa.    L’impresa era ardua, epica, forse impossibile. Forse per questo si passo’ alla bieca formulazione successiva: la raccolta punti con simbolico contributo in denaro, nella quale il consumatore raccoglie un discreto numero di bollini sul cedolino e  aggiunge una piccola somma, di molto inferiore al valore dell’oggetto, per ottenere il suo premio.

Passano gli anni, ed al consumatore sempre piu’ prono le recenti raccolte punti propongono sempre piu’ spesso  “esclusivi pezzi”  ( leggi: articoli invenduti sulla soglia dell’obsolescenza come valige, borse, caffettiere, tostapane di qualche anno fa) previa raccolta di numerosissimi bollini PIU’  ingente contributo in denaro, molto vicino al valore di mercato dell’oggetto e certamente decine di molto superiore al suo valore reale:  se ti dimostri cliente fedele al punto da spendere 500 € in poco piu’ di un mese puoi avere l’occasione di acquistare un paio di bicchieri a 2 € al pezzo, un piatto per 3,50 €, una brocca per 9 €, una tovaglia per 20; e cosi’ via.   In parole povere, la mia fedeltà viene premiata con l’opportunità di comprare fondi di magazzino a prezzo intero.

Malcelata nei bollini adesivi in carta dorata e luccicante,  la beffa è tanto amara da costituire, essa stessa, un danno morale.

Mi conforta la libertà di declinare l’invito ad accettare il cedolino.  Me ne vado senza bollini, certa che verrà in giorno in cui la cassiera di turno mi proporrà di conquistare , tramite coscienziosa raccolta punti e contributo in denaro, una ciotola di riso, un riparo per la notte, o – solo per i piu’ virtuosi –  un contrattino di lavoro interinale.  Spero tanto di potermi permettere, allora come oggi, il lusso di rifiutare.